Breve storia del formaggio

Secondo il Congresso Internazionale per la repressione delle frodi alimentari svoltosi a Ginevra nel 1908, il FORMAGGIO, dal latino formaticum, latte coagulato nella forma, è il prodotto della maturazione della cagliata ottenuta con la coagulazione presamica o acida del latte intero o scremato, ma puro, che non abbia subito alcuna aggiunta di sostanze, ad eccezione di quei prodotti che entrano normalmente nella fabbricazione dei formaggi, come fermenti, sale, spezie. La legge italiana, con il Regio decreto del 15 ottobre 1925 n° 2033, fa proprie queste disposizioni.

 Nell’antichità greca e romana abbiamo menzione di formaggio fatto con latte di pecora, capra e di mucca e, più raramente, di asina e di cavalla. Della sua preparazione parla diffusamente lo scrittore latino Columella, dedicandovi una parte della sua opera; l’invenzione di tale importante cibo è attribuita ad Aristeo, che sarebbe stato nutrito dalle Ninfe con cacio e che avrebbe da loro appreso l’arte di prepararlo. Gli antichi lo comprimevano con pesi e con pressori speciali, lo salavano e lo ponevano poi in particolari canestri di vimini dove il formaggio, al riparo dal sole, seccava lentamente.

Aprile e Maggio erano i mesi preferiti per tale operazione. Sia in Grecia che in Italia vi furono luoghi celebri per la preparazione del formaggio: in Grecia, le Cicladi, Creta, la Beozia, il Chersoneso.

In Italia il primo luogo fu la Sicilia che è in modo particolare celebrata per la fabbricazione del formaggio; poi l’Appennino Ligure, il territorio di Luni, l’agro Parmigiano, il Modenese, Sarsina. Anche nell’Egitto Greco-Romano i papiri ci dicono che il formaggio è di uso comune dal III secolo a.C.

 Il formaggio è considerato fin dall’età omerica (OD. IV, 86) uno dei principali mezzi di nutrimento.

 

 

Durante il Medioevo la fabbricazione e l’uso del formaggio continuarono ad essere praticati su vasta scala in tutti i Paesi Europei dove i Romani avevano diffuso questa tecnica.

Naturalmente non si può ancora parlare di industria vera e proprio, bensì di fabbricazione domestica.

Nel XV secolo un medico italiano, Pantaleone da Confidenza (Vercelli), resosi illustre in Francia, scrisse una “Summa lacticiniorum”, dove ricordava tutta una serie di celebri formaggi Francesi, come quelli di Nimes, Brie, della Grande Chartreuse, ma anche dai nomi non proprio allegri, come Testa di Morto o Testa di Frate, con i quali, visto il loro essere “delicatissimi et gustui soaves”, si potevano fare dei crostini di pane e formaggio fuso (exponuntur igni cum quodam in strumento ferreo… et sicut liquefiunt superponunt crustis panis assati aliqualiter)

 

 In Italia le sistematiche irrigazioni del terreno, che fin dal XIII secolo cominciarono a praticarsi su vasta scala nel Parmense e nella Bassa Lombardia, ebbero anche come risultato quello di iniziare, con l’aumento del bestiame, una vera e propria industria casearia, che andò sempre più sviluppandosi nei secoli seguenti e che ebbe in Parma e Piacenza i suoi centri principali.

Fin dall’epoca di Carlo VIII (1470 – 1498) questi formaggi si diffusero largamente anche in Francia, a detrimento della produzione locale e nel secolo seguente non mancano testimonianze attestanti come alla fabbricazione degli stessi formaggi francesi fossero preposte maestranze venute dall’Italia.

Lo sviluppo delle scienze naturali applicate e quello della meccanica diedero naturalmente un impulso alla tecnica casearia, sfrondandola a poco a poco dall’empirismo che l’avvolgeva e rendendola quale essa è oggi costituita.

 

 

Lo S-CECH de Segusin

Il generale De Gaulle ebbe a dire una volta parlando della Francia, “ Come si può governare un paese con duecento formaggi?” Questo per significare il particolarismo delle genti che vivono in quel Paese, ma non è che l’Italia sia molto da meno, infatti sembra ci siano, catalogati, più di 360 qualità di formaggio e il nostro S-cek con ogni probabilità non è incluso nell’elenco!                                                 È un prodotto così tipico di Segusino al punto che i suoi abitanti sono chiamati in tutto il circondario “i S-cek da Segusin”. Era probabilmente l’unico prodotto di pregio delle piccole stalle del paese, e quanto poco latte si lavorasse lo testimoniano le “caliere da formai” che adesso vengono scambiate per “caliere da polenta”.

 Tuttavia vi erano diversi tipi di lavorazione, dal più semplice, aggiungere il caglio al latte appena munto, al più elaborato, che prevedeva il riposo del latte in capaci recipienti dal fondo piatto per poter togliere la panna. Di seguito ecco la “ricetta” attualmente usata per produrre in casa qualche buona ‘pezhatela de S-cek’:

Intanto un ingrediente importantissimo, il caglio. Un tempo veniva prodotto in casa, utilizzando lo stomaco dei vitellini da latte, macellati per le mense dei ricchi; era molto importante che l’animale avesse mangiato solo latte intero, per la formazione delle sostanze digestive delle proteine del latte. Lo stomaco si faceva essiccare vicino al fuoco, affumicandolo leggermente, quindi veniva macinato sottilmente e la pasta che se ne ricavava veniva riposta in recipienti di terracotta che i vecchi chiamavano “ole”.

Lasciato riposare al fresco il latte della munta serale per tutta la notte, si toglie con un apposito arnese detto “spannarola”, la panna affiorata, che si mette da parte per essere lavorata nella zangola (burcio) e ricavarne del buon burro. Il latte viene messo nella caldaia con quello munto al mattino, non scremato, e si porta il tutto a 34°C. Oggi vediamo fare questa operazione velocemente con il fuoco del gas, ma fino a non molti anni fa, nelle malghe, veniva usata la legna ed era molto importante avere le piccole fascine dei tralci di vite (frascher), facilmente infiammabili, e che portavano rapidamente il latte alla temperatura voluta. Aggiunto il caglio, si mescola velocemente e si lascia riposare per 30 o 40 minuti: se il latte coagula in minor tempo, significa che è stato messo troppo caglio, pertanto il formaggio, stagionando, assumerà un gusto amarognolo.

 

 

A questo punto si rompe la cagliata con un attrezzo detto spino (menarola); non bisogna aver fretta per fare questo lavoro, occorre rompere la cagliata in pezzetti piccolissimi, in modo che esca tutto il siero e la pasta risulti morbida e compatta, priva di occhiature.

Nel frattempo si riscalda di nuovo portando la temperatura questa volta dai 38°C ai 40°C, a seconda che si voglia mangiare il formaggio fresco o stagionato: la temperatura alta aumenta la possibilità di invecchiamento.

Spento il fuoco, si lascia riposare per qualche minuto, in modo che la caseina precipiti e si liberi del siero. Si compatta con le mani, si rigira in modo che il fondo caldo della ‘caliera’ finisca di cuocere la pasta, quindi la si taglia, la si ricompatta bene nelle forme e la si pressa per far uscire ancora quanto più siero possibile. Passata qualche ora, in modo che le forme siano abbastanza asciutte, si mette uno strato generoso di sale, lo si lascia riposare ancora per un po’ di tempo, quindi si lavano le forme, possibilmente con il siero caldo.

Dopo venti giorni di stagionatura, durante i quali i formaggi sono conservati su tavole di legno pulite e girati e lavati quotidianamente, si avranno delle ‘pezhatele’ dalla crosta morbida color giallo carico, mentre la pasta risulta soda e compatta, priva di occhiature, dal gusto forte e leggermente piccante, dovuto al latte intero non pastorizzato.

Il siero, naturalmente, non va buttato via, è l’ingrediente per ricavare la ricotta. Quest’ultima non è propriamente un formaggio, ma un latticino. Da sempre considerato un “parente povero” del formaggio, quasi un prodotto secondario, in realtà è un alimento molto ricco e nutriente, a base di proteine, amminoacidi e grassi.

Per questa leccornia ci vuole un bel fuoco vivace, infatti deve arrivare alla temperatura minima di 90°C; si aggiunge il sale amaro, il “sal da canal”, e, spento il fuoco, si aspetta che la ricotta affiori: occorre essere velocissimi a raccoglierla con l’apposito mestolo forato (cazheta), altrimenti affonda e va persa.

 

E ora un po’ di colore locale: la foto di copertina datata Carnevale 1948

Erano i primi anni del dopoguerra, a Segusino, dopo tante sofferenze, rinunce e lutti, si stava respirando aria di sviluppo artigianale ed industriale, poiché oltre alla famosa filanda della seta era da poco nata la F.I.L.O.S., che qualche anno dopo sarebbe diventata sinonimo di ‘occhiali di nicchia’ come si direbbe oggi.

Molti emigranti erano stati richiamati in Patria con la felice conseguenza della tanto agognata riunione delle famiglie, la costruzione di nuove abitazioni, il recupero delle vecchie e così via, in poche parole, un’altra vita!

E venne il tempo di Carnevale, tanta voglia di divertimento da parte di giovani e meno giovani, tanto entusiasmo!

Con l’aiuto economico del Capitano Zancaner, un gruppo di baldi giovanotti segusinesi vestirono una trentina di asinelli con occhiali e tanto di pantaloni in tela grigia, per armonizzare con il mantello che Madre Natura aveva da sempre assicurato loro, li aggiogarono ad una “ careta”, veicolo tipico delle zone venete, trasportante un’enorme forma di formaggio, regolarmente mancante di una fetta a dimostrazione dell’interno dal classico colore bianco-avorio, pure questo in armonia con il colore nocciola chiaro della parte esterna della cosiddetta “ pezhatela”.

Accompagnati dalla Banda Musicale e da uno stuolo di mascherine vocianti partirono in pompa magna dalla piazza di Segusino e arrivarono in Piazza a Valdobbiadene, dove l’entusiasmo generale sfociò in un vero tripudio all’insegna di “ Bravi – bravissimi i s-cek”. E così i “ MUS DE SEGUSIN” avevano celebrato in gran pompa la loro “PEZHATELA DE S-CEK” e, perché no, anche i loro “OCIAI”.